Polyporus corylinus Mauri: Omaggio a un fungo dimenticato
Nel periodo tra giugno ed agosto è possibile, per chi ha la fortuna di frequentare i ristoranti dei Castelli Romani, gustare lo “Sfocatello del nocchio”, anche detto “Arsicciolo”.
Il fungo, un Aphillophorales appartenente alla famiglia delle Polyporaceae, si presenta, normalmente, con uno stipite centrale, raramente con uno stipite laterale; ha un cappello circolare, da convesso a infundibuliforme, 2-10 cm di diametro e da 5 mm a 1 cm di spessore; superficie da crema a ocracea, glabra, margine acuto, involuto; pori di colore da bianco a crema, esagonali, allineati a raggiera, decorrenti sul gambo; contesto di colore da bianco a crema, fragile quando asciutto; gambo cilindrico, leggermente ampliato all’apice, 5-12 cm di lunghezza, fino a 1-2 cm di spessore, di colore da bianco a ocraceo, marrone scuro alla base, liscio, glabro.
E’ un fungo non molto diffuso in natura, che, per i motivi che vedremo, difficilmente ha una crescita spontanea, ma è molto apprezzato, per il gusto e la consistenza della carne, quasi esclusivamente nei dintorni della Capitale, dove viene “coltivato” con metodo molto particolare ed in parte segreto, secondo una tradizione che ai Castelli si tramanda da epoca remota. Da un libro del 1834 del micologo Viviani, risulta essere stato molto apprezzato anche dai “…ricchi Signori della Capitale a cui i contadini inviavano ceppi di nocciolo già preparati e popolati di questa specie nascente…”
I “coltivatori” agiscono in aree molto delimitate e, ovviamente, segrete della zona; essi sono, inoltre, in grado di riconoscere il ceppo adatto di Corylus avellana (il nocciolo, o nocchio, come viene chiamato a Roma e dintorni) sul quale potranno fruttificare gli sporofori, guidati anche dal “suono caratteristico prodotto dalla semplice percussione”. Come tutte le Polyporaceae, infatti, lo Sfocatello si sviluppa sul tronco di essenze arboree, principalmente del nocciolo (dal quale prende il nome scientifico di specie), ma anche di castagno o quercia.
Ma adesso viene il bello: per consentire la fruttificazione, il ceppo del nocchio deve subire una istantanea “sfiammata”, che il cercatore produce cospargendolo di liquido infiammabile con uno spruzzatore. La pratica, per ovvi motivi, è estremamente pericolosa e può essere eseguita solo da chi disponga di una grande pratica ed abbia posto in atto tutte le misure idonee ad evitare rischi sia per il bosco che per sé stesso. Così trattato il ceppo viene interrato e dopo alcuni giorni dissotterrato per la raccolta. Il coltivatore esperto, che conosce correttamente il trattamento da effettuare, può facilmente raccogliere oltre 10 Kg di sfocatelli; il ceppo, prima di esaurirsi, può essere utilizzato per diversi anni, ripetendo la pratica descritta. Secondo alcuni coltivatori, se il clima è sufficientemente caldo come nel periodo indicato, la reazione che determina la fruttificazione non è dovuta alla “sfiammata”, ma alla sola spruzzatura del liquido infiammabile: da qualche anno si sta quindi limitando, con buoni risultati, il trattamento a questa operazione.
I primi a scoprire il segreto di questa coltivazione furono i “carbonari”, che, nelle vicinanze delle piazze di produzione del carbone o nei boschi andati a fuoco, notarono la nascita degli sporofori. Oggi la tecnica di produzione del carbone non è più la stessa, ma, grazie al metodo descritto, lo Sfocatello può ancora essere apprezzato in cucina, utilizzandolo, ad esempio, per condire la pasta (con un sugo leggero di olio e pomodorini) oppure friggendolo in padella con la pastella.
Renato Fortunati